Bartók completò la sua unica opera
lirica nel 1911 all'età di trent'anni.
Il castello di Barbablù è basato su un
testo di Béla Balàzs (1884-1949), poeta
ungherese di una certa prominenza il
quale tre anni dopo gli fornì lo
scenario anche per la sua seconda opera
scenica, il balletto Il principe di
legno. Quando ebbe terminato l'opera,
Bartók la presentò a una commissione di
belle arti che si era riunita a Budapest
nel 1911 per scegliere e finanziare la
produzione della miglior opera lirica
dell'anno composta da un ungherese. In
quel tempo Bartók non era affatto quel
che si poteva dire un compositore alle
prime armi. Aveva già composto opere
stupendamente colorite come la Seconda
suite per orchestra, la composizione
orchestrale Due ritratti e una enorme
raccolta di brani per pianoforte
intitolati Per bambini. Ma ciò che era
ancor più importante, egli aveva già
composto l'Allegro barbaro e il Primo
quartetto per archi, e inoltre iniziato
la raccolta e la trascrizione
sistematica della musica folcloristica
ungherese e di altri paesi, attività che
avrebbe occupato molta della sua
attenzione. Queste opere gli
conquistarono un piccolo cenacolo di
entusiasti ma anche l'ostilità di una
notevole schiera di conservatori; fra
questi erano compresi purtroppo anche i
membri della commissione di belle arti,
i quali gli restituirono l'opera col
commento lapidario che era
"ineseguibile".
Ma non vi fu verso di trattenere il
musicista né il progresso del suo
Castello di Barbablù. Nel 1917 II
principe di legno fu messo in scena con
successo e un anno più tardi II castello
di Barbablù seguì all'Opera Nazionale di
Budapest. Il successo fu immediato ma di
breve durata: purtroppo la prima guerra
mondiale rannuvolò la scena musicale, e
poiché le idee politiche del librettista
Balàzs costituivano un'eresia per il
governo ungherese, le autorità diedero
l'ordine che il suo nome venisse
eliminato nelle successive
rappresentazioni all'opera.
Caratteristicamente, Bartók rifiutò. Nel
1918 ritirò l'opera e Budapest dovette
attendere ben vent'anni prima di
assistere a un'altra messa in scena del
Castello di Barbablù.
All'estero i progressi dell'opera sulla
ribalta lirica sono stati lenti: una
compagnia ungherese la presentò al
Maggio Musicale Fiorentino nel 1938, fu
allestita un paio di volte in Germania,
e fece una breve apparizione al New York
City Center nel 1952—53. La colpa di
solito veniva attribuita alla trama,
giudicata piuttosto statica e
praticamente priva di azione scenica.
Zoltàn Kodàly, famoso collega
compositore di Bartók, ha replicato a
questa critica con una vigorosa raffica:
"Soltanto gli incorreggibili pedanti
possono continuare a domandarsi se
questa sia 'veramente' un'opera o no.
Che importanza ha? Chiamatela "sinfonia
scenica" o 'dramma accompagnato da una
sintonia', quel che importa è
l'impossibilità di separare la musica
dal dramma, e che in questo caso ci
troviamo davanti un capolavoro, un
vulcano musicale che erutta per sessanta
minuti di tragedia concentrata
lasciandoci soltanto un desiderio:
quello di ascoltarlo di nuovo."
Balàzs utilizzò soltanto lo schema
essenziale della famosa favola di
Charles Perrault nella quale l'ultima
moglie di Barbablù riceve le chiavi
della sua casa e il permesso di aprire
tutte le porte fuorché una. Aprendo la
porta proibita essa trova appese le
teste mozzate delle mogli precedenti.
All'ultimo momento accorrono i fratelli
di lei e la salvano uccidendo Batbablù e
ponendo un lieto fine alla macabra
faccenda. Nella versione di Balàzs (che
deve qualcosa, anche se non troppo,
all'Ariane et Barbe-Bleue di Maurice
Maeterlinck) l'orrore subisce un
processo di "interiorizzazione": la
figura assume un aspetto universale,
diventando "Ognuno" e "Ognuna"; le mogli
non sono state decapitate ma soffrono di
un "taglio" ben più atroce. Detto in
poche parole, la favola del
diciassettesimo secolo diventa un dramma
simbolico del ventesimo.
Dopo un prologo parlato (che viene
omesso nell'incisione) in cui "Il
Menestrello" esorta il pubblico a mirare
oltre alla superficie immediata delle
cose, il sipario si alza mostrando una
grande sala gotica immersa
nell'oscurità. Nelle pareti sono
visibili sette porte enormi. All'inizio
si percepisce appena il sordo brontolio
del registro grave degli archi; quindi
un agghiacciante motivo ai tre note nei
legni sembra balzare in aria come un
pipistrello. In cima a un ripido scalone
si apre una porta più piccola dalla
quale fanno ingresso Barbablù e
Giuditta. Da un breve scambio di parole
apprendiamo tutto ciò di cui abbiamo
bisogno: Giuditta ha lasciato la propria
famiglia e il fidanzato per seguire
l'enigmatico Duca Barbablù e trascorrere
la sua vita con lui. Essa commenta sul
freddo e l'oscurità che permeano la
casa. Muovendosi a tentoni lungo il muro
per trovare la strada, essa scopre che
le pietre sono umide. A questo punto
appare il leitmotiv principale
dell'opera: non si tratta d'una melodia
bensì dell'intervallo armonico
dissonante di seconda minore (sol
diesis-la) suonato dolcemente dai corni
e ripetuto all'ottava superiore dagli
oboi. E' il motivo del sangue, e da un
inizio così poco appariscente esso è
destinato a dominare progressivamente
l'intera trama musicale. Con crescente
esultanza Giuditta giura che asciugherà
le pietre grondanti ed aprirà il
castello di Barbablù per farvi entrare
il sole e l'aria. L'orchestra comincia a
ondeggiare e a gonfiarsi come per
esprimere simpatia, ma la tessitura è
tutt'altro che "aperta" - gli intervalli
sono stretti, frastagliati e minacciosi.
Giuditta nota le sette porte e insiste
perché vengano aperte, battendo un pugno
sulla prima. Si ode un misterioso
sospiro sotterraneo (clarinetti,
eolifono). Barbablù le cede a malincuore
la prima chiave.
La prima porta. Con uno sfondo musicale
formato da un'inesorabile tremolo dei
violini (si-la diesis) viene aperta la
prima porta e un varco attraverso la
lunga e oscura sala. Dietro la luce
Giuditta intravede i coltelli, gli elmi
con le punte e le tenaglie roventi di
una camera di tortura. Ora si rende
conto che l'umidità sulle pareti è
sangue (la seconda minore risuona nelle
trombe in sordina e nei clarinetti).
Nuovamente Giuditta grida con veemenza
che devono entrare il sole e l'aria, ed
ancora una volta l'orchestra sembra
assecondare ma allo stesso tempo negare
il suo desiderio. Essa strappa la
seconda chiave dalle mani di Barbablù.
La seconda porta. Mentre nei flauti si
dilegua il tremolo, i legni e le trombe
suonano una ritirata. Un altro raggio di
luce esce dalla seconda porta, questa
volta di un colore giallo-rosso,
rivelando un arsenale di armi incrostate
di sangue (sol diesis - la nei corni).
Giuditta cammina lungo il raggio di
luce, rallegrandosi perché a poco a poco
l'aria triste del castello va
scomparendo. In uno stupendo arioso
accompagnato dall'arpa e da un corno
solista, Barbablù esprime i suoi
sentimenti contrastanti di speranza e
disagio. Reagendo all'insistenza della
consorte (echeggiata dalla sua linea
vocale ascendente) egli le porge le
chiavi delle prossime tre porte.
Giuditta esita per un attimo davanti
alla terza quindi la apre.
La terza porta. Nell'atmosfera della
musica subentra un cambiamento. La
sonorità si alleggerisce e diventa
delicata. Sostenuta da un lungo accordo
di tre trombe, violoncello e tremolo di
flauto, Giuditta caccia un grido di
gioia: "Montagne dorate!" Un raggio di
luce dorata irradia monete,
diamanti,perle, corone reali e velluti.
Due violini solisti aggiungono un tocco
di magia alle sue esclamazioni. Poi
improvvisamente essa nota alcune macchie
di sangue sui gioielli e le corone, e il
terribile motivo del sangue comincia a
stridere, sforzando, nei flauti e negli
oboi. Barbablù la esorta ad aprire la
quarta porta.
La quarta porta. Un lungo preludio
orchestrale ritrae la scena che Giuditta
vede davanti a sé prima di parlare:
mentre la luce brilla di un verde-blu,
gli archi scintillanti e un corno
sembrano librarsi sempre più in alto per
unirsi ai fiati nel registro acuto,
descrivendo in termini musicali un
giardino fiorito; qui abbiamo una
anticipazione dei "suoni della terra"
della musica strumentale più tarda di
Bartók, in cui verso la fine gli uccelli
e gli insetti trillano e stridono nei
flauti. Ma sui gambi delle rose, sulla
terra che nutre i gigli - ecco che è
nuovamente visibile il sangue. Giuditta
si avvia frettolosamente verso la
prossima porta.
La quinta porta. Un accordo travolgente
di puro do maggiore del tutti sostenuto
da un organo in pieno, scaturisce dalla
fossa orchestrale mentre una luce
abbagliante si riversa dalla quinta
soglia. Giuditta contempla il regno di
Barbablù: prati, foreste, fiumi e
montagne. Tre volte il cataclisma sonoro
in triplice forte commenta la scena
mentre Barbablù canta dei suoi domini e
Giuditta esprime il proprio sgomento. Ma
le nuvole gettano un'ombra di sangue; le
seconde minori riappaiono elusivamente
nell'armonia stridente dei tromboni
accompagnati da un tremolo d'archi. Ora
Barbablù supplica Giuditta di non
indagare oltre; la sala è illuminata con
la luce di cinque porte aperte. Ma essa
insiste: fra loro non deve esserci alcun
segreto. La sesta porta si schiude con
un cigolio di cardini, e dall'interno
esce un lamento.
La sesta porta. Quando viene aperta la
sesta porta, la scena si ottenebra. Un
agghiacciante arpeggio in la minore,
orchestrato con superba maestria, inizia
quasi come un brivido nella spina
dorsale. Inizia, cessa e ricomincia da
capo. Le note più alte dell'arpeggio
(sol - sol diesis) formano il funesto
intervallo del motivo del sangue.
Giuditta scorge davanti a sé l'ampia
distesa di un lago pallido e immobile.
"Lacrime, Giuditta, lacrime, lacrime"
spiega tre volte Barbablù con accenti
discontinui, e giura che l'ultima porta
rimarrà chiusa. Giuditta, stranamente
intenerita, lo implora. In quello che
potrebbe essere quasi un duetto d'amore
essa gli domanda se prima di lei vi sono
state altre donne nella sua vita;
Barbablù risponde evasivamente. Giuditta
si allontana da lui e, mentre le seconde
minori si percuotono l'una sull'altra
nell'orchestra, lo accusa di aver
assassinato le mogli precedenti e di
aver nascosto i loro corpi nella settima
stanza. Egli le cede l'ultima chiave. A
questo punto si ode una stupenda e
tragica melodia
La settima porta. Mentre si apre la
settima porta, la quinta e la sesta si
chiudono adombrando notevolmente la
scena, poiché la luce emanata
dall'ultimo uscio non è che un pallido
barlume di un colore argenteo come la
luna.
Tre dame vestite sontuosamente con abiti
regali escono dalla stanza fermandosi in
silenzio davanti a Barbablù e Giuditta.
"Sono vive!" mormora Giuditta con
stupore. In un arioso di accordi
sostenuti, Barbablù spiega che sono le
sue mogli precedenti. Ha incontrato la
prima al rossore dell'alba, la seconda
nella luce dorata del mezzogiorno, la
terza nella pallida sera. E Giuditta
l'ha incontrata in una notte stellata.
Mentre parla si chiude la quarta porta.
Dalla soglia della terza egli prende
corona, mantello e gioielli e la adorna.
Debole e pietosa, Giuditta protesta ma
viene anch'essa imprigionata
nell'intreccio del motivo del sangue, e
la sua linea vocale è interamente
limitata all'intervallo della seconda
minore. Curvandosi sotto il peso di tale
eleganza vistosa, Giuditta segue le tre
donne attraverso la settima porta, che
si chiude dietro a loro. "D'ora in poi
sarà notte eterna" sospira Barbablù.
L'ultimo uscio si è chiuso, la sala
ritorna nell'oscurità e la musica con la
quale era iniziata l'opera ora la porta
a una conclusione.
Il simbolismo è sempre un'arma con due
lame taglienti: mentre da un lato può
allargare ed arricchire il significato,
vi è anche il pericolo che possa
renderlo più vago e oscuro. Ancora non
si sono trovate due opinioni concordanti
sul significato del messaggio nel
Castello di Barbablù. Forse la
spiegazione più chiara e plausibile è
quella di Serge Moreux (Béla Bartók,
Londra, 1953), il quale sostiene inoltre
che Bartók abbia approvato la sua
interpretazione. Che sarebbe la
seguente: "Forse nel mondo interiore
dell' uomo vi sono dei segreti nascosti;
ognuno di noi racchiude il meglio ed il
peggio, per virtù della nostra
condizione materiale. [...] Soltanto la
raggiante ebbrezza di un nuovo amore può
talvolta dissipare questa oscura
minaccia; ma la nuova donna nella vita
di un uomo deve essere discreta; gli
aspetti nascosti della personalità
dell'uomo sono proibiti a lei e,
soprattutto, quelli in cui [...] vivono
gli amori del passato." Questi angoli
nascosti - le stanze che si trovano
dietro alle sette porte - hanno una
progressione logica oltre che
drammatica. Dalla crudeltà bestiale e la
sete di potere (la camera delle torture,
la guerra) passiamo ai piaceri dei beni
materiali e l'appagamento estetico
(l'oro e i gioielli, il giardino), il
dominio su un regno grande e pacifico (i
domini di Barbablù), l'amarezza della
consapevolezza di sé e l'auto accusa (il
lago di lacrime), e finalmente la camera
nella quale rimane - immortale - la
memoria, anche se i suoi "oggetti" non
sono più raggiungibili (la camera delle
mogli). E' necessario aggiungere
soltanto che Bartók ha trovato la giusta
espressione musicale per ciascuna
componente di questo ampio disegno, ma
senza mai perdere di vista l'insieme.
Alla fine rimaniamo sorpresi, non tanto
dalla complessità del Castello di
Barbablù quanto dalla sua meravigliosa
semplicità. |