Sul Secondo
Quartetto (op. 17) sembrano pesare le
circostanze, storiche ed esistenziali,
del periodo nel quale esso venne
composto, e che ne spiegano la lunga
genesi: dal 1915 al 1917, gli anni della
prima guerra mondiale. Mettendo
l'accento su queste circostanze, si è
soliti vedere in esso una sorta di
rovesciamento dell'itinerario percorso
nel primo, una discesa dalla luce negli
abissi di un destino tragico e desolato.
Come il primo, si compone di tre
movimenti: ma qui il vasto, selvaggio
Scherzo centrale (in forma di rondò,
alternando barbariche figurazioni
ritmiche a livide atmosfere sonore di
inquietante suggestione timbrica) è
incorniciato simmetricamente da due
movimenti lenti.
Il primo {Moderato) si basa su cellule
tematiche estremamente definite, che
solo nell'epilogo giungono a distendersi
in ampio gesto melodico, quasi
sorprendente nell'abbandono a un calore
lirico da idillio romantico. La tensione
che viene a crearsi fra questi due
movimenti si chiarisce solo nel Lento
finale, dove significativamente
riappaiono, in fantasiosissimi
svolgimenti, le stesse idee tematiche
principali, ma per così dire
trasfigurate in una visione metafisica e
oggettiva. A sua volta anche questo
Finale è costruito simmetricamente, con
al centro una marcia funebre che si
trascina senza meta, per poi scomparire
nel nulla. La stessa ripresa ha il
carattere di una dissolvenza verso il
silenzio.
Tre almeno sono gli aspetti da rilevare
in questo Quartetto, in relazione al
definirsi di uno stile personale di
Bartók: la rarefazione timbrica, sempre
più incline a farsi espressione di uno
stato d'animo interiore, sismografo
delle vibrazioni dell'anima e delle
impercettibili variazioni del paesaggio
sonoro notturno; la tecnica
dell'elaborazione compositiva, basata
sulla continua aumentazione e
diminuzione degli intervalli (qui non
ancora, come poi invece avverrà, anche
dei ritmi) nella serie progressiva delle
trasposizioni; la tendenza al
superamento delle differenze modali e
delle gerarchie tonali, verso una
"libera atonalità" che organizza i
dodici suoni della scala in rapporti
armonici autonomi a partire da semplici
aggregazioni cellulari.
Principio e modello in questa direzione
fu per Bartók ancora una volta lo studio
della musica popolare, e in specie delle
scale su cui essa si fondava in antico:
" La loro utilizzazione" - ricorderà
nella Autobiografia (1921) - "rendeva
possibili nuove combinazioni armoniche;
e fu infatti l'uso della scala diatonica
che portò all'emancipazione dal
rigorismo delle scale maggiori e minori,
rendendo così possibile il libero e
indipendente impiego dei dodici suoni
della scala cromatica". |