Nell'ottobre
del 1930 Bartók cominciò a scrivere il
Concerto n. 2 «da affiancare al Primo»,
dichiarò più tardi, «con meno difficoltà
per l'orchestra e anche meno difficile
tematicamente». Il Concerto fu terminato
nell'ottobre del 1931 ed eseguito da
Bartók alla radio di Francoforte sul
Meno, all'inizio del 1933, sotto la
direzione di Rosbaud. Poi il Concerto fu
eseguito a Budapest, il 2 giugno 1933,
da Lajos Kentner, sotto la direzione di
Otto Klemperer, e a Vienna il 7 giugno,
sempre con la Filarmonica di Budapest
sotto la direzione di Klemperer, ma con
Bartók al pianoforte.
Negli anni 30 Bartók comparve
frequentemente in pubblico come
pianista, eseguendo il Concerto n. 2
altre ventuno volte dopo la "prima" (è a
proposito dell'esecuzione radiotrasmessa
da Bruxelles, del 3 febbraio 1937, che
Bartók scrisse alla signora
Muller-Widmann di Basilea: «purtroppo
anch'io mi sono qualche volta
impaperato»).
Un'esecuzione di Bartók radiotrasmessa
da Badapest, il 22 marzo 1938, con
Ernest Ansermet sul podio, fu incisa su
disco da un tecnico, Istvàn Makai, per
incarico di un'ammiratrice di Bartók,
una certa signora Babits.
Disgraziatamente, il tecnico potè
incidere solo frammenti dell'esecuzione,
per un totale di 15'41" su circa 25', e
le matrici ci sono per di più pervenute
molto deteriorate, tanto da limitare
gravemente il valore del rarissimo,
eccezionale documento.
Negli Stati Uniti, dove era emigrato
dopo lo scoppio della guerra, Bartók
eseguì il Concerto n. 2 una sola volta,
a Chicago nel novembre del 1941 sotto la
direzione di Frederick Stock5. Nel
dopoguerra il Concerto n. 2 fu eseguito
di rado: sono da ricordare le esecuzioni
(tutte incise) da Géza Anda, di Andor
Foldes, di Sviatoslav Richter, di Daniel
Barenboim, e più recentemente di Pollini
e di Ashkenazy.
In una breve analisi, scritta nel 1937
per la stazione radio di Losanna, Bartók
richiamò l'attenzione sulle strutture
classiche del Concerto, sull'unità
tematica di primo e terzo tempo («il
terzo tempo è, con l'eccezione di un
solo nuovo tema, una libera variazione
del primo tempo») e sulla simmetria
della forma complessiva — «primo tempo,
adagio, scherzo (il centro), variazione
dell'adagio, variazione del primo tempo»
— aggiungendo di aver impiegato lo
stesso tipo di simmetria formale nei
quartetti n. 4 (1928) e n. 5 (1934). Si
tratta della cosiddetta "forma ad arco",
a cui prima accennavamo, da Bartók
prediletta per l'armoniosità classica
delle simmetrie e da lui impiegata
soprattutto negli anni 30, che viene qui
messa in rapporto con le strutture
classiche del concerto.
Il primo tempo del Concerto n. 2 è
scritto per pianoforte, strumenti a
fiato e percussioni. Le sonorità
prevalentemente percussive del
pianoforte ed i ritmi fortemente
scanditi danno il colore di fondo a
tutta la composizione, che anche
sintatticamente e linguisticamente è
basata non solo, come dicevamo, su
strutture tradizionali, ma su temi dal
profilo tonale molto netto (il Concerto
è in sol). Fu subito notata la
somiglianza tra il primo inciso tematico
— esposto all'inizio dalla tromba — e il
tema della Berceuse nell' Uccello di fuoco
di Stravinsky. Più che di derivazione di
Bartók da Stravinsky si deve parlare di
comuni matrici nel folclore slavo, ed il
primo tempo del Concerto n. 2 si colloca
proprio come manifesto dell'esperienza
bartokiana degli anni 30, del maturo
ritorno alle origini dopo
l'assimilazione, negli anni 20, delle
avanguardie della musica occidentale.
Il secondo tempo, come abbiamo visto,
inserisce uno Scherzo tra esposizione e
riesposizione variata di un tema in
movimento lento. Si può osservare che
qualcosa di simile era accaduto nel
secondo tempo del Concerto n. 1 di
Ciaikovsky; ma, mentre in Ciaikovsky la
parte centrale era chiaramente
subordinata alle parti estreme, in
Bartók lo Scherzo assume un rilievo
grandissimo, tanto che si potrebbe
parlare di scherzo con preludio e
postludio.
L'Adagio iniziale è del tipo dei
movimenti lenti bartokiani che vengono
detti musica della notte e che derivano
indirettamente dalla Canzona di
ringraziamento offerta alla Divinità da
un guarito del Quartetto op. 132 di
Beethoven: corale degli archi (a sei
parti, pianissimo, con sordina, non
vibrato), breve episodio meditativo di
pianoforte e timpani, ricapitolazione
del corale, brevissima conclusione di
pianoforte e timpani. Nel Presto
centrale Bartók riprende il colore
sonoro del primo tempo, aggiungendovi lo
sfondo appiattito e neutro degli archi
in sordina (prevalentemente con tremoli
e pizzicati, che lo rendono ancor più
sfuggente e indistinto). La ripresa
dell''Adagio è una variazione
soprattutto dinamica della prima parte:
musica notturna per eccellenza, che
inizia con misteriosi brusii, si gonfia
sino ad un culmine, si spegne
progressivamente su suoni profondissimi
di pianoforte, timpani, violoncelli e
contrabbassi, a cui s'aggiunge il
lontano, arcano risuonare del tam-tam
(il tam-tam esegue, il tutto il
Concerto, tre soli suoni, due nel primo
tempo ed uno alla fine del secondo
tempo).
Il terzo tempo è quello più direttamente
legato alla tradizione virtuosistica del
pianoforte: la difficoltà tecnica del
primo e del secondo tempo era molto
elevata ma non appariscente perché la
velocità non risultava abbastanza alta
o, quando lo era {Scherzo del secondo
tempo), nessun ascoltatore poteva capire
quanto risultassero ardui, ad esempio, i
passi in doppie seconde.
Le doppie terze, le doppie seste, le
doppie ottave del finale sono invece
eseguite a velocità rispondenti a
concezioni tradizionali del virtuosismo
di bravura, e le doppie ottave, in
particolare, richiamano subito le
prodezze che il pianista deve saper
sostenere nel Concerto n. 1 di Liszt o
nel Concerto n. 1 di Ciaikovsky. Anche
un lungo passo delle due mani in ottava
ricorda un passo analogo del Primo di
Ciaikovsky, ed un passo in arpeggi
ricorda la fine del Concerto n. 2 di
Brahms.
Il carattere di citazione stilistica, e
non di riecheggiamento accademico della
tradizione, che appare senz'ombra di
dubbio anche al più disattento degli
ascoltatori, dipende a parer nostro da
una trovata sorprendente: il finale del
Concerto n. 2 di Bartók comincia come la
conclusione di un concerto tradizionale,
con grande arpeggio in crescendo del
pianoforte su rullo di grancassa,
sfociante in un secco, stridulo re di
tutta l'orchestra. Da questo inizio
inusitato e bizzarro si sviluppa il
dialogo pianoforte-timpani che diventa
l'elemento portante della composizione.
Tutto il finale acquista così il senso
retrospettivo di riconquista critica
della tradizione, ed apre la via, come
abbiamo detto a suo luogo, al ritorno
del virtuosismo che caratterizza la
seconda fase, gli anni 30, del
neoclassicismo. |