Al pari
degli ultimi Quartetti di Beethoven, i
sei Quartetti per archi di Béla Bartók
possono essere considerati un ciclo
unitario, un'espressione fra le più
compiute e alte della musica del nostro
secolo per quanto riguarda la ricerca
linguistica, timbrica e formale. Ma a
differenza degli ultimi di Beethoven,
che circoscrivono un periodo limitato
seppure di fondamentale importanza nella
produzione del loro autore (ciò che
comunemente va sotto il nome di tardo
stile), i Quartetti di Bartók
abbracciano quasi l'intera carriera del
compositore e ne segnano lo sviluppo
lungo il cammino verso la piena, matura
realizzazione della sua personalità e
individualità, con una pregnanza e
densità che hanno pochi riscontri nel
panorama della musica contemporanea e
non hanno ancora finito di esercitare un
sottile, ambiguo fascino d'attualità.
Mai come in questi lavori Bartók
condensa all'estremo la propria ricerca
compositiva, nell'essenzialità della
scrittura di quella che fu da sempre
considerata la più pura e nobile delle
forme strumentali classiche, per
rispecchiarvi tutte le ansie e le
aspirazioni di un'intima, e sia pur a
tratti problematica, necessità creativa.
Tra il primo e l'ultimo dei sei
Quartetti corrono trent'anni: dal 1909
al 1939. Sono date significative,
giacché esse segnano rispettivamente la
svolta-dopo un periodo di crisi e di
chiarificazione che si attua proprio con
la composizione del Primo Quartetto, e
la decisione di abbandonare l'Ungheria
per motivi politici e di trasferirsi
negli Stati Uniti (il Sesto Quartetto è
l'ultima opera scritta da Bartók in
patria). Non a caso, in uno scritto
pubblicato sulla " Revue Musicale" nel
1921, Zoltàn Kodàly, che di Bartók era
stato il punto di riferimento negli anni
della crisi (una crisi di identità
provocata dal disagio nell'armonizzare
la tradizione con le nuove istanze di
una musica nazionale e autenticamente
popolare), riconosceva nel Primo
Quartetto il superamento chiarificatore
di un dramma interiormente vissuto: una
specie di "ritorno alla vita" di
un'anima approdata alia foce del nulla.
È noto che Bartók trovò la via d'uscita
da questo vicolo cieco ripercorrendo a
ritroso la strada che conduceva alle
fonti originali della musica popolare
contadina non solo ungherese, ma anche
slovacca, rumena, balcanica (più tardi
addirittura araba); da queste raccolte e
dagli studi compiuti su di esse,
dapprima con l'aiuto di Kodàly e poi in
proprio, Bartók pervenne a una nuova
consapevolezza dell'uso di questo
materiale nella musica d'arte, che
modificò anche la sua visione generale
della tradizione romantica e
tardoromantica. Il suo mondo artistico
si arricchì così di nuovi contenuti, in
duplice senso: le strutture modali,
melodiche e ritmiche della musica
popolare, riprodotte nella realtà
concreta e originale della loro natura,
si contrapposero alla densità cromatica
e alla intensificazione espressiva della
musica colta occidentale e del suo
complesso linguistico-formale, per
cercare poi una integrazione sul piano
della modernità. Il ciclo dei Quartetti
rappresenta le tappe di questa
integrazione: come se Bartók ne
distillasse via via gli elementi in un
processo di riduzione alla pura essenza
dei suoi valori. E ciò incide non
soltanto sul linguaggio e sulla
scrittura quartettistica, ma anche sulle
scelte timbriche e sulla architettura
formale, nei singoli movimenti come
nell'arco complessivo.
Il Primo Quartetto, iniziato nel 1908 e
finito il 27 gennaio 1909 (op. 7), è da
questo punto di vista un'opera
programmatica. I tre tempi di cui si
compone hanno caratteri diversi, che
corrispondono a tre diversi momenti di
un processo non solo di chiarificazione
ma anche per così dire di liberazione.
Il primo (Lento) è a sua volta
tripartito: al tessuto polifonico,
contrappuntistico, disteso e insieme
compatto della prima parte (che ritorna
con carattere di maggior sospensione e
attesa nella "ripresa") si contrappone
nella sezione centrale un lirismo
fortemente espressivo, appassionato,
armonicamente assai ricercato e
insistito; a metà strada fra
l'astrazione dei movimenti lenti in
minore degli ultimi Quartetti di
Beethoven e l'ansia cromatica di Wagner.
L'Allegretto che segue ha la funzione di
un Allegro di sonata, come se il primo
tempo fosse stato solo un'introduzione;
ma il suo carattere è quello di uno
Scherzo con le movenze di un valzer,
alquanto ironico nella presentazione del
tema sull'ostinato del primo violino. La
crescente animazione di questo movimento
si modera a poco a poco fino a bloccarsi
nel passaggio al terzo tempo
(Introduzione: Allegro-Meno vivo Molto
Adagio), da cui esplode il conclusivo
Allegro vivace.
Esso è ispirato chiaramente al folclore
ungherese, come è attestato dalla base
pentatonica della struttura melodica e
dalle figurazioni ritmiche insistite su
suoni ribattuti, in una articolazione
metrica che esce dagli schemi
convenzionali delle unità di misura
simmetriche. Ed è proprio la presenza di
queste microstrutture melodiche e
ritmiche a liberare una fortissima
carica di energia, risolvendo la
tensione dei movimenti precedenti,
gravata di angoscia e di dubbi, in una
gioiosa affermazione di slancio vitale,
di segno autenticamente positivo.
Due aspetti di natura compositiva sono
da sottolineare già in questo Primo
Quartetto, giacché diventeranno quasi
una costante nell'arte di Bartók: la
tendenza alla forma ciclica, con nessi
profondi anche se spesso piuttosto
nascosti, e la predilezione per una
sorta di concezione monotematica, estesa
all'intera architettura formale;
anch'essa sovente mascherata da una
fitta rete di relazioni lontane, e
intesa più come risultato di
un'elaborazione compositiva (nel senso
della predetta riduzione all'essenza
degli elementi costitutivi) che come
punto di partenza prefissato. In altri
termini, Bartók giunge alla sintesi
attraverso l'analisi, non a priori. |