CONCERTO PER UN PIANOFORTE PRINCIPALE E
DIVERSI STRUMENTI AD ARCO, A FIATO ED A
PERCUSSIONE
Aggiuntovi un Coro finale per voci
d'uomini, a sei parti. Le parole
alemanne del poeta Oehlenschlaeger
danese.
Ferruccio Busoni, artista che nella
Belle Epoque fu tra i maggiori pianisti
e tra i maggiori compositori.
Il suo Concerto op. 39 (1903-04), che
segue il convenzionale Concertstùck del
1890, intende sintetizzare non una delle
tendenze
storiche, ma tutta la storia secolare
del concerto.
Il Concerto di Busoni ha delle
caratteristiche esteriori: cinque tempi,
grande orchestra e coro maschile finale.
Il Concerto di Busoni è scritto da un
pianista di carriera e da un pianista
grandissimo, che non può rinunciare a
tentare una grandiosa, "ultima" sintesi
di tutta la tecnica pianistica.
La parziale ricaduta nel concetto
tradizionale di virtuosismo, ed è questa
la prima contraddizione del Concerto,
diventa così inevitabile: si osservino
la prima entrata del solista nel primo
tempo e la vertiginosa cadenza alla fine
del quarto tempo (in questo senso, la
negazione più radicale e più autentica
del concetto ottocentesco di virtuosismo
verrà raggiunta poco più tardi da Ives,
nella Quarta Sinfonia — 1910-16 — che
contiene una difficile parte di
pianoforte solista costantemente
sommersa nella sonorità dell'orchestra).
La contraddizione che si può notare
nella scrittura pianistica si rinnova
quando si esamina il linguaggio, che
mette maggiormente in evidenza una
sproporzione tra una penetrante capacità
di cogliere i nodi storici creatisi
nella musica occidentale verso la fine
dell'Ottocento ed una spinta
rivoluzionaria non sempre altrettanto
profonda.
Così, nel secondo tempo del Concerto
Busoni cita la canzone napoletana «Fenesta
ca lucive», nel quarto ancora «Fenesta
calucive» e le canzoni bersaglieresche
«E sì che la porteremo la piuma sul
cappello» e «la dis che l'è malada». E
queste semplici citazioni bastarono a
mandare agli orsi la critica berlinese,
stomacata, dice il Dent, per aver dovuto
ascoltare tre canzonacce italiane «in
una sala consacrata al nome di
Beethoven».
Busoni riuscì quindi ad ottenere un
effetto fortemente provocatorio nei
confronti di una critica estetizzante e
sciovinistica.
Busoni trattò i temi canzonettistici con
mano finissima di artista consumato,
impreziosendoli, rendendoli
interessanti, privandoli di ogni
autentica carica di volgarità. Nella
gigantesca tarantella che forma il
quarto tempo la chiarezza con cui sono
realizzate le sovrapposizioni tematiche,
l'ordine e la razionalità degli effetti,
la mancanza di confusione e di frastuono
portano ad una sterilizzazione del
materiale popolaresco e ad un ritorno
verso il manifesto turistico
dell'Ottocento.
La rappresentazione storica non è dunque
quella né di un vero ribelle, né di uno
spirito che sintetizzi le contraddizioni
del secolo, e così l'ultimo tempo,
quando il coro intona un testo mistico
del poeta danese Adam Oehlenschlàger,
non apre veramente uno squarcio verso un
mondo nuovo ma si collega visibilmente
ad un episodio della storia del genere,
al finale della Fantasia op. 80 di
Beethoven.
L'impiego del pianoforte come strumento
d'orchestra, in Petruska, è innovativo
al massimo grado e dà veramente inizio
ad una nuova epoca nella strumentazione,
così come indicativi di una nuova
concezione dell'orchestra sono gli usi
del pianoforte nel Prometeo di Scriabin
(1908-10) e nella Sinfonia n. 4 di Ives
e anche nell'Arianna a Nasso di Richard
Strauss (1911). |