Già nel Prèlude
à l'après-midi d'un faune (1892-94), primo
capolavoro sinfonico di Debussy (eseguito
per la prima volta a Parigi il 22 dicembre
1894, direttore Gustave Doret.), la novità e
la libertà della concezione hanno suscitato
analisi differenti sfuggendo a una
convenzionale schematizzazione. La fluida
continuità senza cesure nette maschera
l'articolazione del succedersi delle sezioni
in una costruzione di carattere elusivo, non
più interpretabile secondo schemi
tramandati, eppure a essi in qualche misura
riferibile. Fa parte della specifica
suggestione del Prelude (e del suo
collocarsi in una posizione liminare) il
coesistere, fondersi, intrecciarsi di
reminiscenze (per lo più allusive, e non
sempre nitidamente afferrabili) e del
profilarsi di un pensiero musicale nuovo. Il
cangiare del colore, il succedersi delle
intuizioni armonico-timbriche assumono un
peso formale decisivo, e le trasformazioni
del suono tendono a fondare una logica
nuova, che si sostituisce a quella della
elaborazione tematica
La melodia del flauto, all'inizio, si
profila senza accompagnamento, sospesa,
«così carica di voluttà da divenire
angosciosa» (Jankélévitch), di incerta
definizione tonale. Il «respiro nuovo» che
Boulez sottolineò in questa frase è degno
davvero della «sonora, vana e monotona
linea» creata dal fauno di Mallarmé sul suo
strumento: un arabesco che si libra
struggente in un vuoto, in una totale
assenza di certezze. Iniziando sempre con la
stessa nota, che ogni volta fa parte di
un'armonia diversa e assume nuovi colori, il
flauto ripete la sua melodia in situazioni
instabili e mutevoli, proponendone sottili
varianti, che si collegano con logica
intuitiva e a poco a poco si discostano
dall'effetto di libera, indeterminata,
sospesa improvvisazione suggerito dalle
prime battute. Le idee che si presentano poi
nel corso del pezzo si rivelano affini alla
melodia iniziale e possono essere
considerate sue derivazioni, dai profili
sempre più precisi, fino al momento in cui,
esattamente a metà del pezzo, viene
presentata una lirica idea in re bemolle
maggiore (non immemore forse del Notturno
op. 27 n. 2 di Chopin) dal gesto intenso ed
espansivo. La sezione centrale, preceduta da
un primo «sviluppo», rappresenta nel Prelude
il momento meno lontano da echi del passato,
fra l'altro wagneriani, ed è caratterizzata
dalla tensione di grandi archi melodici e da
procedimenti armonici concatenati secondo
una logica più familiare: poi si ha un nuovo
«sviluppo» e una sorta di ripresa
sensibilmente variata.
Essa sfocia in una coda che si spegne e
dissolve con la massima delicatezza in
un'atmosfera sospesa, come se la musica
tornasse all'ombra e al silenzio
misteriosamente, come ne era uscita: davvero
nel Prelude Debussy appare idealmente più
vicino a Mallarmé proprio dove trova gli
accenti più inconfondibilmente personali.
Stéphane Mallarmé
MONOLOGO D'UN FAUNO
UN FAUNO
seduto, dal'uno e dall'altro braccio
si lascia sfuggire due ninfe.
Si alza.
Avevo Ninfe!
E un sogno?
No: il chiaro Rubino l'aria immobile
Dai seni inalberati ancora infiamma
Respirando :
Ed i sospiri bevo.
Picchiando col piede :
E dove mai saranno?
Invocando la scena :
O fogliame, se quelle
Mortali tu proteggi,
Per Aprile che gonfia le tue fronde
Nubili (languo ancora
Di tali mali) e per la nudità
Delle rose, rendimele, o fogliame!
Nulla.
A gran passi:
Le voglio!
Fermandosi :
Se la bella coppia
Razziatrice non fosse che illusione
Dei tuoi sensi favolosi? Silvano,
Ha l'illusione gli occhi verdi e azzurri,
Come i fiori delle acque,
Della più casta? E fu,
Quella... che la dolcezza del contrasto
Invaghiva, lungo il tuo vello mosso
Il vento di Sicilia?
No, no: il vento dei mari Che lo spasimo
versa
Alle labbra per sete
Sbiancanti verso i calici,
Non ha, per rinfrescarle,
Né quei contorni cosi lisci al tatto,
Né quei cavi misteri dove bevi
Freschezze che non ebbero
Mai i boschi per te.
Eppure !
Alla scena:
0 gladioli prosciugati
D'una palude che la mia passione
Saccheggia alla pari del sole,
Tremanti con scintille, o giunchi:
Che mi recavo a rompere, Narrate,
Le grandi canne dal mio labbro
Domate, quando, sopra il glauco oro
Delle lontane verdure inondanti
Delle fontane il marmo,
Ondeggia sparso biancore di greggia:
Narrate che al rumore
Del mio flauto ove il tono giusto cerco
Pei vischi d'uno zufolo
Quel volo... di cigni? no, di naiadi
Si mette in salvo. Seguo...
Ma nella luce fulva
Voi bruciate senza un sussurro,
Senza dire che prese il volo
Il branco sgomentato dal mio flauto.
La fronte nelle mani:
Basta! Mi lascia tutto ciò interdetto:
Dunque sarei la preda
Del mio torrido desiderio,
Torbido tanto che creda
Alle Germinali ebbrezze?
Sarei io puro? Io, non lo so!
Sopra la terra tutto è oscuro:
E questo anche, e meglio di tutto:
Poiché le prove d'una donna
Dove, mio petto, dovrai tu trovarle?
Se i baci avessero ferite,
Lo si saprebbe! Ma lo so!
0 Pane, ecco del ruzzo i testimoni,
Osserva! Ammira a queste dita
Una morsicatura femminile
Che dice i denti e che misura
La felicità della bocca
Dove sono fiorenti i denti.
Alla scena:
Dunque, miei boschi di lauri sommossi,
Confidenti delle fughe, e voi, gigli
Dal pudico silenzio,
Conspiravate? Grazie.
A meraviglia la mia mano lancia
Nel sonno eterno di ninfee gialle
Il sasso che a grandi
Brandelli sparsi le farà annegare,
Come anche so brucare il suo germoglio
Verde all'illanguidita vigna
E domani su vana borraccina!
Ma traditori vili trascuriamo.
Sereno, sopra questo decaduto
Zoccolo senza ritegno parlare
Io voglio delle perfide,
E con idolatre pitture
Strappare ancora alla loro ombra
Cinture: cosi, quando la chiarezza
Ho succhiato dalle uve,
Perché il rimpianto sia dal sogno
Scansato, alzo ridente
Il vuoto grappolo al cielo d'estate,
E, dentro le sue pelli luminose
Soffiando, avido d'ebrezza,
Sino a sera attraverso ad esse guardo.
Si siede:
Naiadi, rigonfiamo
Ricordanze diverse: i miei occhi,
I giunchi forando, seguivano
Un collo immortale, che annega
Dentro l'onda la bruciatura
Con un grido di rabbia al cielo
Della foresta: e il branco,
Dal bagno grondante scompare
Nei cigni e i brividi, o gemme!
Andavo, quando si frammischiano
Ai miei piedi, fiorite
Dal pudore d'amare
In quel letto azzardoso,
Due dormienti infra l'estasi
D'essere due. Le afferro
Senza snodarle, e volo
A giardini, dall'ombra frivola
Odiati, di rose che al sole
Vanno attizzandosi d'impudicizia,
Dove l'amore nostro
Sia simile all'aria consunta!
Si alza :
T'adoro, furia delle donne,
O delizia selvatica
Di quel bianco fardello nudo
Che s'insinua sotto il mio labbro
Di fuoco bevente, in un lampo
Di odii! lo spaurirsi segreto
Della carne, dai piedi
Della cattiva al dorso della timida
Sopra una pelle crudele e fragrante,
Umida forse degli stagni
Dai vapori splendenti.
Il mio crimine fu d'avere,
Senza esaurire quelle paure
Maligne, il ciuffo scapigliato
Diviso, di baci che avevano
Gli dei cosi bene arruffato:
Poiché, mentre un ardente riso
Stavo celando sotto le felici
Pieghe d'una sola, e tenendo
Con un gracile dito
Affinché si tingesse il suo biancore
Di piuma ai fulgori d'una sorella
Che va prendendo fuoco, la più piccola,
Candida e che non arrossisce, già
Dalle mie braccia sfatte
Da lascivi trapassi,
Quella preda, per sempre ingrata
Si libera, senza pietà
Dei singhiozzi dei quali ancora ero ebbro!
Ritto
Dimentichiamole! Molte altre
Mi vendicheranno con i capelli
Loro intrecciati ai corni
Della mia fronte! Sono
Contento! Tutto, dalla melagrana
Aperta, all'acqua che va nuda
Nel suo diporto, qui a me s'offre.
Il mio corpo, che nell'infanzia
Eros illuminò, quasi dissemina
Del vecchio Etna i rossi fuochi!
Per questo bosco che, la sera,
Di ceneri ha la tinta,
La carne passa, nel fogliame spento
Accendendosi. Perfino si dice
A voce bassa che la grande Venere
Secchi i torrenti andando a piedi nudi,
Nelle serate insanguinate
Per bocca sua, di rose!
Le mani giunte in alto
Se...
Come parando con le mani disgiunte
un fulmine immaginario :
Ma sono forse fulminato?
Lasciandosi cadere :
No,
Quelle palpebre chiuse e il mio corpo
Appesantito dal piacere
All'antica siesta soccombono
Di mezzogiorno. Dormiamo...
Steso
Dormiamo:
Posso sognare senza crimine
Della mia bestemmia, nell'arido
Muschio, e come amo, al gran sole
Padre dei vini, la mia bocca aprire.
Con un ultimo gesto :
Addio, donne; duo quando venni
Di vergini. |