Central Park in 
									the Dark 
									Molto adagio 
									Composizione: 1898 1906 
									Organico: ottavino, flauto, oboe, 
									clarinetto, 2 fagotti, tromba, trombone, 2 
									pianoforti, archi, 
									percussioni 
									 
									Lavoro quanto mai emblematico del 
									particolarissimo impressionismo «ivesiano», 
									Central Park in the Dark (some Forty Years 
									Ago) (la «meno seria» delle Two 
									contempla-tions, il dittico musicale a cui 
									appartiene insieme alla «contemplazione 
									seria», la celeberrima The Unanswered 
									Question), composto tra il 1898 e il 1906 e 
									mai eseguito durante la vita del 
									compositore, secondo quanto scrisse lo 
									stesso Ives «vuole essere un dipinto 
									musicale dei suoni della Natura e dei suoni 
									occasionali che si sarebbero uditi stando 
									seduti su di una panchina al Central Park in 
									una calda notte d'estate di quarantanni fa.
									 
									 
									Gli archi rappresentano i suoni della notte 
									e l'oscurità silenziosa, interrotti da echi 
									provenienti dal Casino oltre il laghetto: 
									voci di cantanti da strada che salgono dal 
									Circle cantando le canzoni d'allora, qualche 
									«barbagianni» che ritorna da Healy's 
									fischiettando l'ultima marcia goliardica, 
									l'ubriaco occasionale, un corteo o una danza 
									negra in lontananza, strilloni che gridano, 
									pianole che scandiscono il ragtime [...]; un 
									autobus, un'orchestrina da strada si 
									uniscono al coro; un'autopompa, un biroccio 
									passa e se ne va [...], i passanti vociano; 
									di nuovo si percepisce l'oscurità, un'eco 
									oltre il laghetto e noi ce ne andiamo a 
									casa». 
									È un pezzo dove «la dimensione del ricordo, 
									del tempo passato, viene dilatata, 
									acquistando un significato quasi cosmico e 
									sovratemporale» (G. Vinay), che Ives 
									costruisce attraverso il contrasto - anche 
									spaziale - tra le sonorità degli archi sullo 
									sfondo, che evocano un'atmosfera irreale, 
									una sorta di «polvere del tempo che si 
									deposita sugli oggetti musicali evocati 
									dagli altri strumenti», e quelle in primo 
									piano, appunto, di legni ottoni pianoforti e 
									percussioni, che rappresentano invece il 
									«contingente», gli elementi realistici della 
									vita quotidiana: questi ultimi, dopo un vano 
									tentativo di emancipazione nella sezione 
									centrale, soccombono, «collassano» come nel 
									finale della Terza Sinfonia, sotto i colpi 
									del silenzio metafisico, metafora del tempo 
									che tutto travolge, tutto riduce in polvere. |