Il fatto che per
qualche tempo Brahms abbia considerato il
Quintetto per archi I in sol maggiore op.
111 la sua ultima composizione oggi fa
sorridere. Il quintetto fu scritto a Bad
Ischi nell'estate del 1890, di ritorno
dall'ennesimo viaggio in Italia, e negli
anni successivi
verranno altre opere sublimi: tanto per fare
qualche esempio, le composizioni con
protagonista il clarinetto, tra cui il
Quintetto op. 115, i
brevi pezzi pianistici delle opp. 116-119, i
Vier ernste Gesànge op. 121.
Se nel Quintetto op. 111, che segue di otto
anni la gemella op. 88, è effettivamente
dato di cogliere in qualche modo
l'intenzione di un
coronamento, benché rivelatosi poi tutt'altro
che conclusivo, ci si può chiedere quali ne
siano i tratti salienti. In ogni caso, la
composizione presenta lineamenti molto
particolari. Max Kalbeck, autore all'inizio
del Novecento di una monumentale monografia
su Brahms, sottolineò lo spiccato carattere
viennese di un'opera in cui avrebbero
trovato il loro punto d'incontro "tedesco
senso dell'umorismo e melanconia slava,
temperamento italiano e orgoglio magiaro",
intendendo dunque per viennese l'amalgama
asburgico e mitteleuropeo di culture
diverse. Si deve a Kalbeck anche la
supposizione che l'inizio del quintetto
abbia avuto origine da una delle ultime due
sinfonie abbozzate ma mai portate a termine
da Brahms.
Dopo una prova, Kalbeck chiese inoltre
all'autore se l'opera non avesse come
sottotitolo segreto "Brahms al Prater"; al
che Brahms gli
avrebbe risposto, con furbesco ammiccamento
degli occhi: "Giusto. Non è vero? E tra
molte belle ragazze".
Queste indicazioni contribuiscono a
inquadrare il Quintetto op. 111, che Brahms
sottopose come d'abitudine al giudizio di
alcuni amici
fidati, ricevendo i consensi, tra gli altri,
di Elisabeth von Herzogenberg e di Joseph
Joachim, consensi appena velati da qualche
perplessità
sulle difficoltà esecutive della partitura.
Ora, per quanto riguarda il carattere
viennese il quintetto manifesta numerose
inflessioni locali nei molteplici
riferimenti al valzer e alla
musica tzigana, peraltro ormai perfettamente
assimilati nel linguaggio brahmsiano. In
vari passaggi, a incominciare dal movimento
iniziale,
la scrittura tende a forzare i limiti della
musica da camera proiettandosi in una
virtuale dimensione sinfonica.
I giudizi degli amici e poi la recensione di
Eduard Hanslick della prima esecuzione
affidata al Quartetto Rosé (Vienna, 11
novembre 1890)
rilevarono subito alcuni aspetti essenziali
del lavoro, che pare fondere in modo
mirabile prorompente freschezza
d'ispirazione (degna d'un
trentenne, secondo Elisabeth von
Herzogenberg) e assoluto magistero
compositivo: l'invenzione radiosa, la
gioiosa vitalità sonora, la
luminosa trasparenza della tessitura, la
concisione e la saldissima coerenza interna
della forma.
Tutto ciò s'impone sin dall'Allegro non
troppo, ma con brio, naturalmente in forma
di sonata. |