Originariamente
Moses und Aron era stato concepito come un
oratorio. Ancora nel 1928 Schoenberg aveva
scelto per l'abbozzo del libretto il titolo
"Mose e Aronne. Un oratorio". Solamente
nella partitura, che Schoenberg iniziò a
scrivere il 17 luglio 1930 a Lugano, il nome
di "oratorio" venne sostituito con quello di
"opera". Tale indecisione fu dovuta
probabilmente a ragioni differenti: da un
lato vi era infatti l'influenza della
tradizione, di cui Schoenberg si sentiva il
continuatore e che poteva indurre a
scegliere la forma dell'oratorio ogni qual
volta che ci si trovava ad affrontare come
tema dei "soggetti elevati", vedi l'Israele
in Egitto di Handel: Dio non poteva infatti
venire impigliato nel gioco delle passioni
umane. D'altro lato però Schoenberg era ben
consapevole del fatto che poteva concepire i
due protagonisti Mose e Aronne solamente in
forma dualistica, cosa che avrebbe implicato
di per sé una concezione drammatica. Fu così
quindi che alla fine Schoenberg si decise
per l'opera. Ma con ciò la strada era
tutt'altro che spianata. Nel 1930 comporre
un'opera significava ancora dover scegliere
tra il Musik-drama della tradizione di
Wagner e Sttauss e la forma lineare,
"additiva" dell'opera a numeri. Schoenberg
aspirava palesemente ad una sintesi di
queste due tradizioni: già la stessa idea di
ricavare tutta la musica da un'unica serie
di dodici suoni postulava infatti la
presenza di un piano generale e quindi di
una concezione nel segno del Musikdrama.
Tuttavia Schoenberg non si è limitato
affatto a reinventare ancora una volta il
Musikdrama di Wagner, bensì ha articolato il
piano complessivo dell'opera secondo il
modello mozartiano in parti di recitativo,
ariosi e cori, senza però concedere a queste
parti un'autonomia eccessiva, tale da poter
turbare il flusso drammatico-musicale.
Schoenberg ha conservato l'uso dei
recitativi, criticando in questo Wagner, per
ragioni drammatiche. Come ha scritto infatti
nell'introduzione della partitura, anche se
nei recitativi le altezze delle note devono
essere assolutamente rispettate, per via
della loro organizzazione dodecafonica, i
cantanti hanno però in compenso assai
maggiore libertà dal punto di vista ritmico,
una libertà che deve essere sfruttata dai
solisti al fine di una caratterizzazione
drammatica: "Infatti i due interpreti sono
posti qui di fronte ad un compito che è
praticamente impossibile da risolvere senza
un contributo personale." Antiwagneriana è
anche una seconda prescrizione: "[...] ad
eccezione dei recitativi, il canto deve
essere sempre eseguito come melodia, come
Hauptstimme [voce principale, a cui
corrisponde nel sistema di scrittura
Schoenberghiano un segno grafico
particolare, N. d. T.]." Mentre nelle opere
di Wagner le parti cantate fanno talvolta
l'impressione di essere state quasi inserite
in un secondo tempo nel contesto sinfonico
preesistente, Schoenberg si attiene qui
rigorosamente al primato della melodia
ariosa.
Sicuramente sarebbe un errore tacciare per
questo il compositore di pura
superficialità; piuttosto il primato della
melodia, nonostante essa soddisfi ben poco
la nozione tradizionale di melodia, deriva
infatti la sua ragion d'essere da precise
necessità compositive. Schoenberg ha
definito abbastanza minuziosamente la
tecnica dodecafonica come una "composizione
con dodici suoni posti unicamente in
relazione fra loro", vale a dire che tutti i
suoni hanno assolutamente la stessa
importanza. Egli ha cercato di
controbilanciare questo livellamento,
nell'elevare al rango di tema nel corso
della composizione determinate forme della
serie oppure segmenti di essa, agendo
sull'articolazione ritmica e ristabilendo in
tale maniera la gerarchia che era andata
perduta, la distinzione cioè tra ciò che è
importante e ciò che non lo è. Tuttavia,
nonostante questa ricostruzione a posteriori
di una scala gerarchica all'interno di un
materiale omogeneo, resta irrisolta la
questione attinente alla possibilità di
caratterizzare musicalmente l'individuo:
Aronne e i cori parlano infatti la stessa
lingua. Soprattutto per questo motivo
Schoenberg avrebbe scritto quindi la parte
di Mose come voce "recitante" (sebbene anche
i cori, di quando in quando ricorrano, a
loro volta a questo tipo di dizione).
Eppure, paradossalmente, proprio questa
disposizione finisce per rafforzare
l'impressione che Mose e Aronne
costituiscano due aspetti di un'unica
persona, l'uno profetico-rivoluzionario,
l'altro pastorale-pratico. Quest'idea si
trova già formulata nel dramma parlato Der
biblìsche Weg (Il cammino biblico), scritto
da Schoenberg nel 1926/27. Qui il duce del
popolo (così la definizione di Schoenberg)
Max Aruns (questo nome alludendo già ai
protagonisti dell'opera futura), fallisce la
sua missione proprio perché cerca di riunire
Mose e Aronne in una sola persona. Il terzo
elemento di questo "dramma dell'anima" è
rappresentato dalla collettività,
raffigurata dal coro. A seconda della
rispettiva situazione (sete, fame, attesa di
Mose) il coro oscilla tra Mose e Aronne,
rivolgendosi ora contro l'uno, ora contro
l'altro; esso costringe anche Aronne a
soddisfare il desiderio del popolo di avere
un'immagine realistica di Dio. Aronne,
indossati i panni dell'artista, crea quindi
il vitello d'oro.
In quest'azione però si rivela il contenuto
dell'intera opera. Già nei cori op.27, che
precedettero la composizione dell'opera,
Schoenberg aveva messo in musica le parole:
"Tu non puoi farti alcuna immagine!" Con
rigore consequenziale egli sviluppa ora
ulteriormente nell'opera questo
comandamento, ad esempio nel dialogo tra
Mose e Aronne alla fine del secondo atto.
Con un gesto grandioso ed eretico allo
stesso tempo Mose interpreta le colonne di
fuoco e di nubi, e pertanto Dio stesso, come
idoli fallaci. Per Mose infatti Dio è
possibile unicamente come pensiero assoluto,
come un'astrazione, che non può essere
raffigurata. Ma il pensiero che pensa Dio
non può essere anche il pensiero di
Schoenberg se non è in grado
contemporaneamente di assumere un'immagine
musicale, nell'atto di comporre una musica,
la cui monu-mentalità sia il risultato di
un'unità senza cedimenti di tutti i suoi
elementi. E questa totalità vuole essere per
l'appunto l'immagine di ciò che non è
permesso raffigurare. Questa contraddizione
costituisce da un lato la ragione della
grandezza di quest'opera, dall'altro però ha
fatto sì che essa restasse allo stato di
torso.
Schoenberg aveva terminato la composizione
del secondo atto il 10 marzo 1932 a
Barcellona. Il terzo atto è costituito, come
attesta il libretto, da un'unica scena. Se
nei due atti completati Schoenberg aveva
seguito in tutto e per tutto il testo del
secondo libro di Mose, nel terzo atto egli
si è discostato in modo significativo dal
modello biblico. Infatti per restare
plausibile dal punto di vista drammatico, la
concezione dualistica doveva concludersi
tragicamente. Sebbene la lite che divampa
tra Mose e Aronne a causa del vitello d'oro
sia ancora attestata nella bibbia,
Schoenberg si ribella, non senza un certo
"pathos" illuministico, all'"ingiustizia"
rappresentata dal fatto che nel testo
bìblico Aronne, nonostante sia rimasto
impigliato profondamente nel peccato di
apostasia, se la cavi alla fine con poco
danno. Nella sua versione Schoenberg
condanna invece Aronne ad una meritata
punizione. Dopo essersi fatto condurre
Aronne in catene, Mose lo mette in libertà,
ben sapendo che il fratello non potrà
sfuggire al tribunale di Dio. Non appena
liberato Aronne viene infatti schiantato al
suolo come un albero. Tale riserva nei
confronti del racconto biblico deve essere
apparsa a Schoenberg come un'eresia
insostenibile. Il principio dualistico, già
di per sé di origine illuministica, non
poteva più essere conciliato con la totalità
mitologica del soggetto narrativo. Per
questo Schoenberg ha rinunciato allora a
comporre il terzo atto. La formula a cui
Adorno ha ricondotto questa impossibilità è
dotata di una rara evidenza concettuale: "Il
divieto di raffigurare l'immagine divina va
al di là di quello che Schoenberg stesso,
che lo ha rispettato come pochi, volesse
ammettere. Il fatto di assumere in forma
immediata come tema dell'opera d'arte i
grandi contenuti, significa oggi schizzare
il loro calco [...]." E ciò significa
inoltre, che l'immagine che Schoenberg si
era fatto del divieto divino di raffigurare
la sua immagine ricadeva a sua volta sotto
questo divieto. |