Nel momento in cui la sua carriera di scrittore era in attesa di una riconferma che in qualche modo riabilitasse anche l'uomo, da molti considerato personaggio molto discutibile, Hemingway scrisse quello che sarebbe stato il suo capolavoro.
Questa storia venne scritta nella primavera del 1951 e nelle intenzioni dello scrittore doveva essere il primo racconto di una trilogia sul mare. Lo scrittore decise di pubblicare il racconto sulla rivista "Life" per saggiare le reazioni dei lettori e riscosse un successo di pubblico e critica tale da fargli riconoscere nel 1953 il premio Pulitzer e nel 1954 il premio Nobel per la letteratura.
La storia che poi avrebbe trovato la forma ottimale nel libro era già stata trattata in un pezzo di
Hemingway pubblicato nel 1936 su "Esquire" ed il racconto de "Il vecchio e il mare " si differenzia solo per il nome del personaggio; identica è invece la sequenza di avvenimenti che vede questo vecchio pescatore contendere agli squali la preda faticosamente conquistata dopo giorni di pesca infruttuosa e dopo una lotta estenuante con l'enorme pesce per riuscire ad ucciderlo.
Molti critici hanno cercato di leggervi un simbolismo nascosto: ci fu chi ritenne che lo scrittore avesse voluto descrivere la malvagità della natura e chi pensò che fosse un'affermazione di fede naturalistica, ma Hemingway respinse ogni interpretazione.
Lo scrittore intendeva solo descrivere un'altra situazione in cui l'uomo vive una
sconfitta, che nel caso del pescatore Santiago è dura ed ingiusta; l'idea del vinto del resto, si ritrova spesso nei personaggi dei suoi racconti e Santiago è uno sconfitto che non perde la sua dignità, che continua a lottare anche se sa che non avrà
successo, ma la lotta, lo sforzo di affrontare il destino gli permette di raggiungere una vittoria anche attraverso la sconfitta.
Questa è forse la lotta che ogni personaggio di Hemingway combatte contro un nemico più nascosto, ma presenza costante dei suoi lavori: la morte. È una presenza che incombe sulle azioni degli uomini, viene rappresentata dal mare o dai predatori dei suoi racconti ambientati in Africa; le corride, le guerre e le battute di caccia rappresentano la descrizione del momento in cui la morte agisce in una specie di rappresentazione in cui si contrastano il piacere di dare la morte con quello sottile di poterla ricevere.
Si percorre uno schema comune di opposizione tra vittima e morte, con una non velata simpatia per la vittima che riscatta la sua condizione di perdente con la strenua opposizione all'accettazione passiva della sconfitta.
Sicuramente sono innumerevoli gli episodi che hanno contribuito alla formazione di questa ossessione: le esperienze vissute durante la guerra, il suicidio del padre dello scrittore ed il continuo sfiorare la morte durante i vari incidenti capitatigli durante la vita.
Toccanti sono state le parole con cui Faulkner ha recensito il libro: "…questa volta ha scritto della pietà: su qualcosa che da qualche parte li ha creati tutti, il vecchio che doveva catturare il pesce e perderlo, il pesce che doveva essere catturato e poi perduto, i pescecani che dovevano derubare il vecchio del suo pesce; li ha creati tutti e li ha amati tutti e ha avuto pietà di tutti".
Il libro narra la lotta tra un vecchio pescatore e un gigante dei mari. È una lotta dura, indimenticabile.
Il vecchio, con le mani insanguinate, lotta per tre giorni e per tre notti contro il sonno e la stanchezza, in
balia del suo “nobile” avversario che vorrebbe trascinarlo giù, verso l’abisso, dove disperatamente si dibatte per liberarsi dall’amo infisso profondamente nelle sue carni.
E alla fine l’uomo, piccolo essere di fronte al gigante, riesce a vincere, non solo per la sua intelligenza, ma anche per la sua abilità di vecchio lupo di mare. Ma la gioia della vittoria gli si inacidisce in cuore. I pescicani, i feroci corsari del mare, salendo famelici dalle profondità marine, addentano ingordamente il pesce agganciato ai fianchi della barca allontanandosi solo dopo averlo accuratamente spolpato.
E il vecchio se ne ritorna in porto con quell’enorme scheletro, trofeo vittorioso, ma triste, della sua lotta titanica.
Era un vecchio che pescava da solo su una barca a vela nella Corrente del Golfo ed erano ottantaquattro giorni ormai che non prendeva un pesce. La vela era rattoppata con sacchi da farina e quand’era serrata pareva la bandiera di una sconfitta perenne.
Il vecchio era magro e scarno e aveva rughe profonde alla nuca. Sulle guance aveva le chiazze del cancro della pelle, provocato dai riflessi del sole sul mare tropicale.
Le chiazze scendevano lungo i due lati del viso e le mani avevano cicatrici profonde che gli erano venute trattenendo con le lenze i pesci pesanti.
Ma nessuna di queste cicatrici era fresca.
Erano tutte antiche come erosioni di un deserto senza pesci. Tutto in lui era vecchio tranne gli occhi che avevano lo stesso colore del mare ed erano allegri e indomiti.
Il vecchio intendeva dirigersi al largo e si lasciò l’odor della terra alle spalle e remò nel fresco odor dell’oceano del primo mattino.
Vide la fosforescenza delle alghe del Golfo nell’acqua mentre remava in quella parte dell’oceano che i pescatori chiamavano il gran pozzo perché vi era un salto improvviso di più di mille metri in cui si adunavano pesci di ogni genere a causa del mulinello creato dalla corrente contro le pareti ripide del fondo dell’oceano.
Si concentravano qui gamberetti e pesci da esca e a volte frotte di calamari nelle buche più profonde, che la notte salivano alla superficie a far da nutrimento a tutti i pesci che passavano.
Nell’oscurità il vecchia sentì giungere il mattino e mentre remava udì il suono tremolante dei pesci volanti che uscivano dall’acqua e il sibilo fatto dalle rigide ali tese mentre si allontanavano librate nel buio.
I pesci volanti gli piacevano molto ed erano i suoi migliori amici, sul l’oceano.
Non vedeva più il verde della riva, ormai, ma soltanto le cime delle colline azzurre che si stendevano bianche come se fossero incappucciate di neve, e le nuvole, che sopra di esse parevano alte montagne nevose.
Il mare era molto scuro e la luce creava prismi nell’acqua.
Il vecchio calò le lenze per la pesca in profondità e attese, mentre seguiva il filo dei suoi pensieri.
All’improvviso, “guardando le lenze, vide tuffarsi di colpo uno dei bastoncini sporgenti”.
Un pesce aveva abboccato all’amo coperto di sardine. Doveva essere enorme. Il vecchio tentò di farlo salire a galla ma inutilmente.
Il pesce incominciò invece a nuotare verso l’abisso e poi verso il largo trascinandosi dietro l’imbarcazione.
Passarono ore e ore.
Giunse la notte e poi l’alba, un’alba fredda che increspava il mare. “Una volta il pesce fece un balzo che lo gettò a faccia in avanti causandogli un taglio sotto l’occhio.
Il sangue gli scese lungo la guancia. Ma coagulò e si asciugò prima di giungere al mento”.
Più tardi il pesce diede un altro strattone improvviso e il vecchio, cadendo sulla prua, si ferì alla mano con la lenza che gli era penetrata nelle carni. Disinfettò la ferita immergendo la mano nell’acqua e osservò “la scia di sangue che si allontanava e il movimento regolare dell’acqua contro la mano mentre la barca procedeva”. Poco dopo il pesce uscì. Era un enorme pesce spada. “Uscì senza fine e l’acqua gli ricadde dai fianchi. Era lucente nel sole e la testa e la schiena erano di un rosso scuro e nel sole le strisce sui fianchi apparivano larghe, di un lavanda leggero”. Era mezzo metro più lungo della barca e aveva la spada “appuntita come un’alabarda” e la coda “più alta della lama di una grossa falce”.
Il vecchio ora sudava per qualcosa che non era soltanto il sole. A ogni svolta calma, placida, del pesce ricuperava la lenza, ed era certo che in altre due svolte sarebbe riuscito a lanciare la fiocina.
Ma devo farlo venire vicino, vicino, vicino, pensò. Non devo mirare alla testa. Devo prendere il cuore.
– Sii calmo e forte, vecchio – disse. Ma quando sferrò il suo attacco, iniziando un bel tratto prima che il pesce si avvicinasse e tirando con tutta la sua forza, il pesce si piegò un poco e poi si raddrizzò e si allontanò.
– Pesce – disse il vecchio. – Pesce, dovrai pur morire in ogni caso. Vuoi uccidere anche me? –
Alla prossima svolta l’aveva quasi preso. Ma di nuovo il pesce si rizzò e si allontanò lentamente.
Mi stai uccidendo, pesce, pensò il vecchio. Ma hai diritto di farlo. Non ho mai visto nulla di grande e bello e calmo e nobile come te, fratello. Vieni a uccidermi. Non m’importa chi sarà a uccidere l’altro.
Ora stai perdendo la testa, pensò. Devi tenere la testa lucida. Tieni la testa lucida e fa vedere come sa soffrire un uomo. O un pesce, pensò.
– Ritorna in te – disse con una voce che riuscì a udire soltanto a stento. – Ritorna in te –.
Altre due volte avvenne lo stesso alle svolte del pesce.
Tenterò di nuovo, promise il vecchio, nonostante adesso le mani fossero molli e gli occhi vedessero soltanto tra i lampi.
Tentò di nuovo e accadde lo stesso. Ecco, pensò, e si sentì svenire prima di cominciare; tenterò di nuovo.
Raccolse tutto il dolore e ciò che gli restava della sua forza e dell’orgoglio da tanto tempo sopito e lo gettò contro l’agonia del pesce e il pesce si accostò al suo fianco e nuotò con garbo al suo fianco sfiorando quasi col rostro il fasciame della barca e si avviò ad oltrepassarla, lungo, profondo, largo, argenteo e striato di viola e interminabile nell’acqua.
Il vecchio lasciò cadere la lenza e vi posò sopra il piede e alzò la fiocina più alta che poté e la lanciò con tutta la sua forza, e la nuova forza che aveva allora trovato, nel fianco del pesce, dietro alla grande pinna pettorale che si alzava nell’aria giungendo all’altezza del petto dell’uomo. Sentì il ferro conficcarsi e vi si appoggiò sopra e lo immerse più profondamente e poi lo spinse con tutto il peso del suo corpo.
Allora il pesce tornò in vita, recando in sé la sua morte, e si librò alto fuori dell’acqua mostrando tutta la grande lunghezza e larghezza e tutta la sua forza e la sua bellezza. Parve restare sospeso nell’aria sul vecchio nella barca. Poi precipitò in acqua in un crollo che coprì di spuma il vecchio e tutta la barca.
Il vecchio si sentiva debole e nauseato, e non riusciva a vedere. Ma districò la lenza della fiocina e là lasciò scorrere lentamente tra le mani sanguinanti, e, quando riuscì a vedere, vide che il pesce era sul dorso con la pancia argentea riversa. L’asta della fiocina sporgeva dalla spalla del pesce formando un angolo e il mare si colorava del sangue rosso che gli sgorgava dal cuore.
Il vecchio, dopo aver legato al fianco della barca il suo “nobile ” nemico ormai senza vita (ci ricorda Achille che lega al suo cocchio il corpo inerte dell’eroe troiano), si accinge a ritornare in porto. Ma la scia di sangue lasciata dal pesce spada attira i famelici pescicani, i “galanos”, come li chiamano i Cubani. Il vecchio, solo, indebolito dalle fatica, dalla veglia, dalla fame, inizia contro gli squali una lotta furibonda per salvare la sua conquista. Ma è una lotta impari e, alla fine, del pesce spada non resterà che uno scheletro gigantesco legato alla piccola imbarcazione.
Era un grossissimo pescecane Mako fatto per nuotare veloce come il pesce più veloce del mare ed era bello in ogni sua parte tranne nelle mascelle. La schiena era azzurra come quella di un pescespada, e la pancia era argentea e la pelle era liscia ed elegante.
Quando il vecchio lo vide giungere capì che questo era un pescecane che non aveva la minima paura e avrebbe fatto esattamente tutto quello che voleva.
Il pescecane si accostò alla poppa e quando lo colpì il vecchio vide la bocca che si apriva e gli strani occhi e il colpo tintinnante dei denti quando si immersero nella carne poco sopra la coda. La testa del pescecane era fuori dell’acqua e la schiena ne sporgeva e il vecchio udì il rumore della pelle e della carne che si lacerava nel grosso pesce, quando scagliò la fiocina nella testa del pescecane in un punto in cui la linea tra gli occhi si intersecava con la linea che gli saliva dal naso. Queste linee non esistevano. Esistevano soltanto la pesante affilata testa azzurra e i grandi occhi e le tintinnanti mascelle sporgenti che inghiottivano ogni cosa. Ma quello era il punto in cui si trovava il cervello e il vecchio lo colpì. Lo colpì con le sanguinanti mani molli, lanciando una buona fiocina con tutta la sua forza. Colpì senza speranza ma con decisione e totale malevolenza.
Il pescecane si rivoltò e mostrò al vecchio l’occhio senza vita, e poi si rivoltò di nuovo avvolgendosi in due giri di sagola. Il vecchio sapeva che era condannato, ma non si sarebbe rassegnato. Poi rivoltato sulla schiena, con la coda sferzante e le mascelle tintinnanti, il pescecane sbatté l’acqua come un motoscafo. L’acqua era bianca sotto i colpi della coda e per tre quarti il corpo era visibile sull’acqua quando la sagola si tese, vibrò e si spezzò. Il pescecane rimase disteso un momento sulla superficie, e il vecchio lo guardò. Poi affondò lentamente.
– Si è portato via quasi venti chili – disse il vecchio ad alta voce. – Si è portato via anche la fiocina e tutta la sagola, pensò, e ora il mio pesce perde di nuovo sangue e ne verranno degli altri –.
Non gli piaceva più guardare il pesce da quando questo era stato mutilato. Quando il pesce era stato colpito fu come se fosse stato colpito lui stesso.
Ma dopo un paio d’ore, ecco giungere due altri pescicani attratti dall’odore del sangue. “Uno si voltò e scomparve sotto la barca e il vecchio sentì la barca tremare per gli strattoni che diede il pesce. L’altro guardò il vecchio dalle fessure degli occhi gialli e poi si avvicinò in fretta col semicerchio delle mandibole spalancate per azzannare il pesce nel punto in cui era stato colpito. La linea era chiaramente visibile in cima alla testa bruna e giù dove il cervello si congiungeva al midollo spinale e il vecchio spinse il coltello legato al remo nel punto di congiuntura, lo ritirò e tornò a immergerlo negli occhi gialli, da gatto, dello squalo. Lo squalo lasciò la preda del pesce e affondò, inghiottendo mentre moriva ciò che aveva rubato”.
Il vecchio, bordeggiando, fece uscire quindi lo squalo che era sotto la barca e lo colpi con tutta la sua forza “nel centro della testa appiattita”; ma il pescecane “rimase attaccato al pesce con le mascelle chiuse e il vecchio lo pugnalò “all’occhio sinistro ” e poi ancora “tra le vertebre e il cervello” e continuò finché non lo vide affondare, senza vita. Ma ecco un altro “galano”. E il vecchio, quando lo vide addentare ingordamente la preda, gli affondò “nel cervello il coltello legato al remo. Ma lo squalo fece un balzo all’indietro mentre si girava e la lama del coltello si spaccò. Il vecchio si rimise al timone. Non guardò neanche il grosso squalo che affondava lentamente nell’acqua mostrandosi prima a grandezza naturale, poi piccolo, poi minuscolo”.
Gli squali non lo azzannarono più fino al tramonto.
Il vecchio vide le pinne brune seguire la vasta scia che il pesce doveva aver fatto nell’acqua. Non indugiarono neanche sulla scia. Puntavano direttamente sulla barca, nuotando l’uno accanto all’altro.
Il vecchio bloccò la barra del timone, diede volta alla draglia e si allungò a poppa a cercare la mazza. Era l’impugnatura di un remo spezzato segata a un’ottantina di centimetri di lunghezza. Poteva venir usata con efficacia con una mano sola a causa della forma dell’impugnatura, e il vecchio l’afferrò con la mano destra, flettendovi sopra la mano mentre guardava gli squali che si avvicinavano. Erano tutti e due galanos.
Devo lasciare che il primo si attacchi e poi colpirlo sulla punta del naso o proprio in cima alla testa, pensò.
I due squali si accostarono insieme e quando vide quello più vicino aprire le mascelle e affondarle nel fianco argenteo del pesce, il vecchio levò alta la mazza e l’abbatté pesante picchiando sulla testa dello squalo. Sentì la solidità elastica quando vi calò la mazza.
Ma sentì anche la rigidità dell’osso e colpì di nuovo, forte sul muso, lo squalo, mentre questo si staccava scivolando dal pesce.
L’altro squalo si era allontanato e ora si riaccostò con le mascelle spalancate. Il vecchio vide qualche pezzetto della carne del pesce sporgere bianca dall’angolo delle mascelle dello squalo, quando questo azzannò il pesce e chiuse le mascelle. Il vecchio si voltò verso di lui e colpì soltanto la testa e lo squalo lo guardò e strappò il pezzo di carne. Il vecchio gli abbatté di nuovo addosso la mazza mentre si staccava per inghiottire e colpì soltanto la pesante, solida elasticità.
– Su, galano – disse il vecchio. – Ricomincia –.
Lo squalo si accostò con violenza e il vecchio lo colpì mentre chiudeva le mascelle. Lo colpì con solidità e da tutta l’altezza cui riuscì ad alzare la mazza. Questa volta sentì l’osso alla base del cervello e tornò a colpire nello stesso punto mentre lo squalo strappava la carne lentamente e si staccava scivolando dal pesce.
Il vecchio attese che ritornasse, ma nessuno dei due squali si mostrò. Poi ne vide uno che nuotava a cerchi sulla superficie. Non vide la pinna dell’altro.
Non potevo aspettarmi di ucciderli, pensò. Avrei potuto farlo ai mici tempi. Ma li ho feriti tutti e due gravemente e né l’uno né l’altro deve sentirsi molto bene. Se avessi potuto usare una mazza a due mani, il primo lo avrei ucciso di sicuro. Anche adesso pensò.
Non volle guardare il pesce. Sapeva che una metà ne era stata distrutta. Mentre combatteva con gli squali, il sole era tramontato.
– Mezzo pesce – disse. – Tu che sei stato un pesce. Perdonami di essere andato troppo al largo. Ho mandato in malora tutti e due. Ma abbiamo ucciso molti squali, tu ed io, e ne abbiamo mandato in malora molti altri. Quanti ne hai uccisi tu, vecchio pesce? Non hai certo quella spada sulla testa per niente.
Che cosa farai adesso, se vengono durante la notte? Che cosa puoi fare?
– Combatterli – disse. – Li combatterò fino alla morte –.
Ma ora, nel buio e senza luci in vista e senza chiarori, e soltanto col vento e la spinta regolare della vela, gli parve di essere già morto. Congiunse le mani e si tastò le palme. Non erano morte e gli bastava aprirle e chiuderle per risuscitare il dolore della vita. Appoggiò la schiena a poppa e capì che non era morto. Glielo dissero le spalle.
Ora era rigido e indolenzito, e le ferite e tutte le parti stanche del corpo gli facevano male nel freddo della notte. Spero di non
dover tornare a combattere, pensò. Spero tanto di non dover tornare a combattere.
Ma verso mezzanotte combatté e questa volta sapeva che il combattimento era inutile. Giunsero in una frotta, e il vecchio riuscì a vedere soltanto le linee fatte nell’acqua dalle pinne e la loro fosforescenza quando si gettarono sul pesce. Prese a mazzate le teste e udì le mascelle serrarsi e la barca scrollata mentre gli squali attaccavano da sotto. Colpì disperatamente qualcosa che si poteva soltanto sentire e udire e sentì qualcosa impadronirsi della mazza e la mazza scomparve.
Strappò dal timone la barra e ricominciò a sferrare mazzate, stringendola con tutt’e due le mani e abbattendola più volte. Ma ormai erano già arrivati a prua e si ammassavano l’uno dopo l’altro e tutti insieme, e mentre si voltavano per ritornare subito, i pezzi di carne strappati si vedevano luminosi sott’acqua.
Alla fine uno giunse alla testa e il vecchio capì che era finita Abbatté la barra sulla testa dello squalo mentre le mascelle erano serrate nella testa del pesce, che non si lasciava staccare. Colpì una e due e più volte. Udì la barra che si spezzava e batté lo squalo con l’impugnatura scheggiata. La sentì penetrare e sapendo che era tagliente, la immerse di nuovo. Lo squalo lasciò la presa e si staccò rivoltandosi. Fu l’ultimo squalo della schiera ad avvicinarsi. Non c’era più niente da mangiare, per loro.
Il vecchio ora respirava a stento, e sentiva un sapore strano in bocca. Era dolciastro e ramoso e per un momento ne ebbe paura. Ma durò poco.
Sputò nell’oceano e disse: – Mangiate anche questo, galanos. E sognate di aver ucciso un uomo –.
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