fiordalice

Il giorno 6 di febbraio 2008

Silvano Contini

Per una analisi critica di “ALZATI E CAMMINIAMO” di Paolo Fiordalice …con qualche licenza personale!!!

Per quanto sia stato complesso comprendere l’intento degli autori di questa opera eclettica, forse troppo carica di significati o forse vogliosa di esserlo, ci sembra di aver individuato in tre livelli dimensionali la struttura dell’opera stessa, livelli che non si intrecciano mai, localizzati lungo tutta la durata del film in momenti del tutto casuali (?).

Le tre dimensioni

L’esistenza temporale come vacuità del vivere

L’esistenza come persona e volontà di riscatto

Verso la fine dell’esistenza e delle cose ad essa connesse

La prima dimensione che viene esposta, già con i titoli di testa, è quella della esistenza temporale, sviluppata attraverso la figura dell’uomo e della sue appendici. Di colui che bisognoso di rimembranze si apparta in luoghi mistici per riflettere sulla propria esistenza o meglio sulla vacuità del vivere. Tutto ciò è perfettamente rappresentato nel film e ben centrata a mio avviso è la banalizzazione dell’evento, sia con l’utilizzo di musicalità romantiche e tardo romantiche, sia per la scelta degli attori e dei loro atteggiamenti. La scena si ripete lungo i 25 minuti, senza soluzione di continuità, senza pre-avvisi, come se gli autori avessero sentito il bisogno di spezzare ogni tanto gli eventi che si svolgevano nelle altre due dimensioni. Si, perché ciò che viene rappresentato in questo primo livello nulla ha a che vedere con la realtà, tanto è intriso di falso buonismo, di invadenza ipocrita, di assoluto nonsenso. Ma l’impressione che gli autori ci hanno dato attraverso le immagini è quella del bisogno forse di normalità ma nello stesso tempo che tale normalità non è raggiungibile se le contraddizioni esistenti altrove sono in aperto contrasto con la vita che si tenta di vivere; che tali eventi (le altre due dimensioni) incombano in modo così pesante sulle nostre esistenze che non (ci) permettano il raggiungimento della normalità o almeno che possano influenzarci in modo critico nel tentativo del suo raggiungimento. Un plauso a Paolo Craboledda (un attore preso dalla strada), amico nella vita, che rappresentando se stesso ha voluto così ironicamente prestarsi ad una sorta di interpretazione neo neo-realista del suo personaggio (si rammenta la rappresentazione iper reale dell’esistenza come falso ideologico in quanto mentitore di se stesso).

Ecco, è forse da qui che si deve partire per entrare nella seconda dimensione, quella in cui emerge l’uomo come persona, la necessità del suo riscatto, quella rappresentata dalle scene in cui è presente Don Jeronimo Monteiro che interpreta (anche lui) se stesso. Da qui si deve partire, in quanto risulta evidente da parte degli sceneggiatori di dare a queste parti il carattere della parola spiegata, perché l’uomo comprenda bene quali sono le sue possibilità di salvezza, intesa come ripensamento di quella vita (?) quotidiana di cui il primo livello dimensionale rappresenta gli elementi salienti. Ci sembra che non sempre la sceneggiatura renda giustizia alle possibili risposte ai tanti perché della esistenza dell’uomo globalizzato; ciò nonostante Don Monteiro, dall’alto della sua autorevole figura, utilizza tali momenti per dirci in modo anche forte che, nella società occidentale, di fronte alle trasformazioni ed alle metamorfosi profonde in atto, dove a fare da soggetti mutanti sono i poteri mediatici ed economici che tendono ad oggettivizzare l’uomo, per farne un essere mercificabile, va ancora una volta riaffermato che l’uomo stesso, essendo creato ad immagine e somiglianza di Dio, va sempre inteso come soggetto della storia e non come oggetto ridotto a merce (laicamente sono gli uomini a fare la storia e non viceversa). In questa pause di riflessione si coglie comunque la difficoltà di dare risposte diverse da quelle che non siano sostenute dalla fede, in quanto secondo gli autori, ben delineata risulta la fatale ineluttabilità del tutto, della decadenza fisiologica del mondo, del superamento del punto di non ritorno.

Questa linea di demarcazione che potrebbe rappresentare la possibilità di una redenzione, è ben rappresentata nel terzo livello, quello che ci sembra il meglio riuscito del film. Le immagini della sconfitta, di stampo prettamente giornalistico, corrono veloci alternando scene a carattere storico-politico a scene più sociali, di denuncia. E con esse una colonna sonora che paradossalmente non sembra seguire con la sua musicalità ciò che stiamo vedendo, ma che anzi ne aumenta il contrasto facendo esplodere le contraddizioni. Un atteggiamento un po’ di maniera, ma che rende in modo ancora più drammatico il distacco necessario con gli altri due livelli su cui è strutturato il film. Sembrano dirci che davanti a tanta ipocrisia o a tanta speranza per una possibilità di riscatto, l’uomo non sa più chi è, tanta sembra la stupidità degli eventi che oramai ci hanno assoggettato. E le distanze già enormi crescono a dismisura e sono decisamente destinate ad aumentare nonostante la denuncia e la presa di coscienza alla quale Don Monteiro sembrava invitarci. Notevoli le immagini in cui fa la sua presenza la “nera padrona” colei che ci ha preso le coscienze prima del corpo, fino ai minimi dettagli; primi piani drammatici di un realismo terrificante. Livelli di montaggio nervosi, capaci di darci tutto in pochi secondi e forse di non farci comprendere appieno. Ma ne abbiamo bisogno?

La parte conclusiva del film, scusate l’estremizzazione del concetto, riporta alle immagini “bucoliche” della prima dimensione. Con quanto sarcasmo gli autori si soffermano sulla figura che torna al suo “travaglio usato” fino al suo completo dileguarsi nel nulla. Noi non abbiamo compreso bene se questi momenti di feroce ironia siano dovuti alla volontà precisa, o quanto siano gli eventi che abbiano coinvolto gli autori. Noi non vogliamo comprenderlo perché potrebbe significare la definitiva rinuncia nichilista ad una possibile via di uscita. Potrebbe voler dire che la storia oramai incombe sugli uomini e che la volontà è oramai completamente annientata dagli eventi. Tant’è questo ci è sembrato di vedere nella operazione tentata dagli autori. Il completo scollamento delle dimensioni visive accentua il distacco. Certo forse avremmo preferito un maggior coinvolgimento della parte in cui è presente Don Monteiro della sua ricerca del “senso di solidarietà tra gli uomini” intesa come formazione (Alzati e camminiamo); questa carenza ci sembra dovuta forse ad elementi estranei alla volontà degli autori, ma certo alcune risposte ci sono sembrate incomplete o tagliate male, tali da risultare a volte banali (o forse che la cosa sia voluta?.....).

Ci permettiamo, avendole vissute direttamente, di rilevare le citazioni da opere precedenti; alcune riproposte in modo puntuale quasi alla stessa maniera. Come interpretare la scena finale con immagine fissa sul personaggio che si allontana dal set se non come il ripetersi della storia o, addirittura, come immobilità dell’esistenza? Come non rilevare che le immagini della città ripropongono ancora una volta la presenza inquietante della tecnologia che incombe su di noi e ci trasforma a suo uso e consumo? Ieri come oggi?

In conclusione l’opera nel suo complesso ci è sembrata piuttosto riuscita. E, pur ribadendo che non riusciremo mai a capire quanto è stato realizzato per volontà e quanto per caso, rimane pur sempre l’impronta forte di denuncia, dove appunto il caso ha la forza della verità o meglio di quel tentativo di verità che risiede nelle migliori intenzioni del nostro animo e per ciò si esprime al di fuori della volontà. Ma non per questo meno importante. O no?

 

 
 

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Alzati e camminiamo
Soggetto e sceneggiatura di: Paolo Fiordalice e Stefano Margnelli
Regia di Paolo Fiordalice
Prima visione 30 marzo 2008
 

 

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