Le melodie di Bartók conservavano una
forma folk, e l'armonia non si spingeva
fino alla completa atonalità. In queste
opere si fa uso di scale simmetriche
ruotanti intorno a un "centro tonale",
una nota che suona in qualche modo
"giusta" tutte le volte che appare.
Nell'eclettico Quartetto n. 4, scritto
nel 1928, danze dissonanti incorniciano
un etereo movimento lento che scivola
intorno alla tonalità di Mi maggiore
senza mai toccarla veramente. Nel
tranquillo della sezione finale, il
violino suona una soave melodia, simile
alla "Melodia del pavone" della
tradizione magiara.Il compositore era
tornato ai suoi principi originari. In
diversi capolavori degli ultimi anni di
Bartók - la Musica per archi,
percussione e celesta (1936), il
secondo Concerto per violino (1937-38),
e il Concerto per orchestra (1943) - il
rito del ritorno alle origini viene
ripetuto. Il movimento finale di
ciascuno di questi lavori trasmette un
senso palpabile di sollievo, come se il
compositore, che aveva osservato i
contadini con timido distacco, stesse
finalmente gettando via il taccuino per
gettarsi nella mischia. Gli archi
sollevano nuvole di polvere intorno ai
piedi che danzano scatenati. Gli ottoni
suonano corali secolari, quasi fossero
seduti sui gradini sbeccati di una
chiesetta sbilenca. I legni strillano
come bambini eccitati. Le percussioni
evocano la concupiscenza dei giovani al
centro della folla. Non ci sono vittime
sacrificali in queste scene
neoprimitive, anche se qualcuno si
allontana con qualche graffio. Il
rituale del ritorno è più struggente nel
Concerto per orchestra, che Bartók
compose durante l'esilio americano. La
Transilvania era ormai uno spazio
puramente mentale che poteva
attraversare danzando da un capo
all'altro, anche se la malattia fatale
l'aveva immobilizzato.
(Alex Ross – Il resto
è rumore. Ascoltando il XX secolo) |