Nell'estate del 1909, mentre Schoenberg
stava componendo i Cinque pezzi per
Orchestra e la Erwartung, Webern scrisse
a sua volta un ciclo orchestrale, i Sei
pezzi op. 6. Si tratta di un lavoro
incomparabilmente inquietante nel quale
l'asprezza dell'atonalità si rifrange
attraverso la massima raffinatezza
orchestrale. I pezzi di Webern, non meno
di quelli di Schoenberg, sono segnati
dall'esperienza personale, in questo
caso dal perdurante dolore per la
scomparsa della madre del compositore,
avvenuta nel 1906. Sentiamo stadi
successivi di afflizione: il
presentimento del disastro, lo shock
della notizia (stormi impazziti di
strida e trilli di tromba e corni), le
impressioni suscitate della campagna
carinziana vicino al luogo in cui Amelie
Webern fu sepolta, gli ultimi ricordi
del suo sorriso. A metà della sequenza
dei brani c'è una processione funebre,
che comincia in una calma sinistra, con
un rombo di grancassa, tam-tam e
campane. Un gruppo di strumenti dominato
dai tromboni geme in accordi inerti,
implosi. Un clarinetto in Mi bemolle
suona una melodia acuta, dolente,
circolare. Un flauto contralto risponde
con note gravi, gutturali. Corno e
tromba con sordina offrono altri
frammenti lirici su accordi sotterranei.
Poi il gemito dei tromboni cresce di
volume sino a diventare un urlo, cui si
uniscono i legni e gli ottoni. Il brano
è coronato da una terribile sequenza di
accordi di nove e dieci note, dopo di
che le percussioni cominciano il proprio
crescendo fino a raggiungere un rombo
che annienta le altezze musicali. L'era
del rumore è iniziata. I Sei pezzi
erano forse la suprema opera atonale.
Dopo averla scritta, Webern rinunciò ai
grandi gesti e scoprì la propria
vocazione di miniaturista.
(Alex Ross – Il resto
è rumore. Ascoltando il XX secolo) |