Appalachian Spring tenta di fermare quel
treno lanciato a tutta velocità. Come
tante altre opere di Copland, offre
immagini di una nazione ideale,
dell'America che avrebbe potuto essere o
che aveva ancora la possibilità di
essere. Comincia con cinquanta battute
di puro La maggiore: musica di tasti
bianchi, nel senso che se venisse
trasposta in chiave di Do, il pianoforte
avrebbe bisogno solo di questi. Ci sono
improvvise fitte di dissonanza quando
uno dei fili conduttori si intreccia a
un altro. Una serie di brevi scene
bucoliche culmina in una variazione
dell'inno degli Shaker "Simple Gifts",
il cui testo enuclea concisamente
l'estetica di Copland: "Una volta
raggiunta la vera semplicità / Non ci
vergogneremo di inginocchiarci e di
chinare il capo." Nell'episodio
"Fear in the Night" - che nella versione
finale della Graham diventa la danza del
fuoco eterno di un revivalista - ombre
minacciose circondano l'idillio. Ci sono
pulsanti ritmi meccanici, gelidi
passaggi per archi sul ponticello (come
nel Trio per archi di Schoenberg), colpi
sordi delle percussioni come di un pugno
che bussa alla porta. Il finale porta
una conciliazione. Una ripresa di
"Simple Gifts", meravigliosamente
armonizzata su una scala discendente,
cede il passo a un passaggio dal sapore
vagamente blues che reca l'indicazione
"Come una preghiera", le cui frasi
ricadono nel genere di figurazioni
simmetriche che Copland identificava con
la musica nera. Questa è forse la
"chiesa nera" del piano iniziale della
Graham. Nella sezione finale, la musica
di frontiera dell'apertura si alterna a
quella della preghiera in parti
egualmente ripartite - come se un paese
diviso, bianco e nero, venisse reso un
tutto unico.
(Alex Ross – Il resto
è rumore. Ascoltando il XX secolo) |