Britten musicò Shakespeare parola per
parola, anche se, con l'aiuto di Pears,
ridusse l'opera a dimensioni gestibili.
Il meccanismo della "vite", l'intrusione
del sovrannaturale e dell'innaturale
adesso viene rovesciata di segno: quando
sorgono emozioni disturbanti nei regni
paralleli dell'umano e del fiabesco, la
magia di Puck le risolve, quasi sempre
rimediando ai problemi che hanno
causato. Britten crea i propri
incantesimi, inventando un linguaggio di
delicati rumori, scacchi armonici e
melodie supremamente aggraziate che si
dileguano prima di poter esser
afferrate. Alla fine dell'atto III, Puck
e un coro di fate danno ai quattro
mortali il sonno che re Oberon definisce
una "finta morte". Mentre Puck si
prepara a spremere il filtro sugli occhi
di Lisandro. Britten descrive il
filtro che induce il sonno con dolci
accordi che formano una serie
dodecafonica: Re bemolle maggiore, Re
maggiore con la sesta aggiunta, Mi
bemolle maggiore e le note Do e Mi. Su
un'orchestrazione iridescente, i ragazzi
cantano una melodia fluttuante che sale
e scende in terze, una ninnananna da un
altro mondo. Nulla di più delicato è mai
scaturito dal principio dodecafonico di
Schoenberg. Qualcosa di egualmente
magico accade nella coda, quando
l'orchestra riprende la strofa, con i
violini al posto delle voci. La sequenza
di quattro accordi cessa di muoversi,
finendo per posarsi su un caloroso re
bemolle, e la pace assoluta sembra a
portata di mano. Tuttavia, mentre le
terze della melodia ricominciano a
scendere, il loro significato muta: per
un attimo fuggevole, il maggiore si
trasforma in minore, e un'ombra
attraversa con un guizzo la mente.
(Alex Ross – Il resto
è rumore. Ascoltando il XX secolo) |