Un prete nel mio cuore
un film di Paolo Fiordalice
da un'idea di:don Luca Guerinoni
Supervisione storica:
Pierluigi Lazzarini e Stefano Margnelli
Commento
Eroe, eroe per caso, antieroe, oppure? Come si può definire oggi, col
filtro storiografico moderno, opinionando intorno al terzo millennio, la
figura di don Antonio Seghezzi? Parte della perduta umanità del mostro
nazista sterminatore di tanti milioni di corpi che rinasce intorno noi,
o piuttosto la perduta memoria del tempo che fu, nella nullità di questi
tempi inerti, che ci impedisce di immaginarlo uomo o semplicemente
prete? Un grande sforzo è stato fatto nella creazione di questo film
dedicato alla sua figura, per evitare celebrazioni ridondanti retorica,
facili accostamenti ad altri eroi di quei tempi, volontari immolati per
gli altri o mecenati della salvezza di massa (Schindler).
Coloro che lo hanno pensato (il film) e che hanno pensato don Antonio
mentre scrive, o riflette intorno a ciò che dovrà essere la sua vita di
“servo”, hanno immaginato immagini di vite e di sassi semplicemente
esistenti, reali, null’altro che elementi del suo mondo. Eppure non di
realismo si tratta, ché ciascuna parte dell’essere risulta pura
interpretazione, né di verità si tratta, ma di ricerca continua della
verità, con il rigore tipico del miglior cinema di inchiesta, essenziale
nella sua forma, pur in presenza di elementi poetici che ne
caratterizzano l’essenza strutturale.
L’analisi formale del film, ci conduce ad una prima individuazione del
suo funzionamento partendo dalla sceneggiatura. Gli episodi narrativi
che compongono il film sono essenzialmente tre.
Il primo inquadra ambienti antropici e naturalistici che hanno come
scopo quello di richiamare la figura di don Antonio dal momento della
sua formazione fino alla presa di coscienza. Ciò viene descritto con
immagini dei luoghi della sua vita e della sua formazione. La presenza
di Gesuina Seghezzi, sorella di Antonio, richiama fatti di vita comune,
dura, eppure serena, formalmente contemplativa, nella consapevolezza
della impossibilità di indicare altre strade per la vita terrena del
fratello. Il linguaggio è essenziale, semplice, ma non banale.
Spontaneo.
Il secondo episodio, descritto in modo indiretto, con l’ausilio di
immagini ricavate da archivi storici, dove fanno capolino i reportage
alla Folco Quilici, richiama i terribili anni della sua forzata
permanenza in Eritrea come cappellano militare. Immagini di altre genti,
altri suoni, loro malgrado coinvolti nella glorificazione dell’Italietta
colonizzatrice. Altri eroi avrebbero potuto integrarsi, altre fisicità.
Alla ricerca delle conversioni. Per don Antonio la funzione era fuori
luogo, talmente lontana da renderlo fragile allo scopo. Desiderio
naturale, non peccato di superbia, per il ritorno a casa. Solo per
dedizione infinita agli altri, i vinti della vita.
Il terzo episodio è quello
della sua prigionia, calvario che lo condurrà da Bergamo, attraverso
Verona e Monaco, fino alla deportazione in campo di concentramento di Dachau, fino alla morte. L’intervento descrittivo delle circostanze di
Enzo Berlanda e di Tarcisio Fornoni, alternato alle immagini, rileva la
necessità comunque della parola, per cercare un senso a tutto ciò, il
tutto nonostante la evidenza degli accadimenti, solo per ribadire
l’estrema sorpresa degli accadimenti, per colui che non poteva
comprendere tanto orrore.
Le inquadrature, sempre in movimento, rilevano l’impossibilità
dell’esistenza, finestre sbarrate con tonalità forti di bianchi e di
neri, fanno da contrasto ad immagini di monti e luoghi, sfumati sullo
sfondo della imminente tragedia. Il tutto nell’assoluto, naturale
scorrere del tempo di Dio, che per don Seghezzi rappresenta l’unico vero
tempo da spendere nella vita terrena, per il qual tempo si è trovato
naturalmente dalla parte di coloro che soffrono, per il qual tempo si è
trovato, naturalmente, dietro sbarre di carcerieri sconosciuti ai quali
sembra sempre chiedere: che ci faccio qui? I testi sono estratti dalle
lettere che egli scrive a casa, ai suoi cari, dove le sole uniche sue
preoccupazioni sono per la salute degli altri, in espressioni quasi di
sorpresa per la sua scomoda situazione umana, di rifiuto del
preoccuparsi del suo disagio corporale, nella consapevolezza del solo
motivo dell’esistenza.
Dal punta di vista formale i tre episodi trovano come elemento
unificatore la “Stanza del Vescovo”. Libri e carte, lapis, tavoli
pesanti, suppellettili varie e ancora libri fluttuanti alla ricerca del
testo. Primi piani forti, un po’ manieristi, pur se fortemente
espressivi, ripetitivi. Immagini di luce diretta, ed il parlare tacendo
nel silenzio assordante della condanna. L’Istituzione richiama realismo
nei comportamenti necessari per porre fine al fastidio delle
circostanze. L’Istituzione comanda obbedienza, nel timore di rifiuti
impossibili. Ché don Seghezzi mai avrebbe potuto pensare. Ché naturale
doveva essere il suo…destino?
Il montaggio risulta elemento essenziale, come la parola
chiarificatrice. A maggior ragione per quel cinema di inchiesta a cui si
ispira in senso costruttivo tutta la seconda e terza parte di questo
film. Continui rimandi, narrazione a-temporale, flash back, illustrati
con sequenze minime, alcune di qualche secondo, in una narrazione
nervosa e concitata. Musica di accompagnamento al film in continua
mutazione di genere e tempi, fino ai suoni puri in presa diretta della
sequenza dell’Eritrea. Mentre, per le sequenze dedicate alle interviste
si ha camera quasi fissa, montaggio ridotto all’essenziale, voglia di
ascoltare.
Film profondamente religioso quindi, povero di dettagli e di effetti.
Rispettoso di tutti gli elementi compositivi, con rari interventi
dall’esterno. Opera dal montaggio forse eccessivamente nervoso;
manierismo di macchina in spalla (omaggio a Truffaut), di contro ad una
perfetta rispondenza tra il personaggio e le immagini ed i suoni. Così
noi l’abbiamo compresa e accettata consapevoli che la figura naturale di
don Antonio, né eroe, né eroe per caso, non possa essere che vista
attraverso luoghi, parole, suoni della sua esistenza terrena, priva di
connotazioni particolari, di interventi dall’esterno che siano in grado
di modificarne gli indirizzi, nonostante la STORIA sia precipitata sugli
uomini come un torrente in piena. Non qualunquismo, forse coerenza,
certo scelta precisa indirizzata nella negazione della visibilità a
tutti i costi, elemento essenziale dei nostri tempi sciatti.
Silvano Contini
Roma 30 gennaio 2007
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